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Beh, credo che dato il sottotitolo del blog nel quale scrivo, sia, diciamo, “destino”, che io mi ritrovi a scrivere riguardo al rapporto che intercorre tra storia e memoria, quando, parafrasando il monito di Jackson durante il processo di Norimberga, mi domando se “renderemo conto alla storia”.

Dovremmo, forse, partire dal nostro modo di intendere la memoria. Come scrive Halbwachs, “la memoria non è tutto il passato, ma neanche tutto ciò che resta del passato.”
Accanto alla collezione ordinata di momenti, infatti, rimane, al limite tra storico e metastorico, l’immagine, il senso al di là del mero dato, al di là della pagina sui volumi scolastici.
Nel ricordo di un passato mai decaduto nell’oblio permane il “me” come
oggettivazione dell’identità degli individui che oggi sono il presente.
Esiste, infatti, un modo essenzialmente unico in cui ricorderemo il crollo delle torri gemelle, in quanto qualcosa di noi permane in via assoluta nella formula “io c’ero”.
Perché? Per un fatto molto semplice. Essere nella storia significa diventare materia del cambiamento, ed è per questo che ci (dovrebbe) risultare impossibile spiegare che noi eravamo lì, sì, ma eravamo occupati, avevamo da fare, il nostro lavoro era lavorare, o studiare per lavorare, o studiare per non lavorare, e quindi continuare a studiare.
Perché la storia appiattisce ogni cosa, il perché lo spiega Galimberti, citando Jaspers, nel dire “siamo colpevoli perché siamo ancora vivi”. Possiamo caricarci sulle spalle le colpe della morte di milioni di esseri umani per salvaguardare il nostro benessere, come fece Jaspers con i delitti del Nazismo?
Possiamo farlo o meno, possiamo connettere o meno la nostra coscienza con quello che accade attorno a noi, tentare un output da aggiungere all’input, ma quello che è certo è che qualcuno si chiederà perché non abbiamo fatto nulla. Perché eravamo nella storia e non abbiamo avuto il coraggio di entrarci, ai margini, nella speranza che tutto continuasse nel suo fluire senza farci troppo male.
Eppure la memoria non è la storia, come detto, non è un orologio che continua a ticchettare regolarmente per l’eternità, è una materia malleabile, proprio perché antropica, e quindi fondamentalmente caotica.
Se volessimo dare un’immagine, potremmo dire che la memoria sta all’uomo come la gravità alla materia. Comprendere questo significa capire come è attorno all’uomo che si concretizza la memoria, come essa non sia il risultato dell’incontro tra l’individuo e l’esistenza, un dato esogeno che ci si ritrova sulle spalle nella più piena incoscienza.
Ricordare significa ri-costruire, lo spiega Schutz, significa recuperare il me lasciato per strada e riportarlo all’io, con tutti i rifiuti, la sporcizia che esso porta con sé. Non è una questione di Karma, fai del bene e ne riceverai altrettanto, significa essere al mondo con la consapevolezza che esso guarderà un giorno al nostro tempo, modellando la nostra memoria sulla propria asettica storia.
Allora sarà molto difficile dire “così andavano le cose”, perché se noi ci dimentichiamo della nostra memoria, la storia difficilmente si scorda di noi, anche quando non ci chiama per nome.

Inizieremo, oggi, non dalle mirabili baggianate misteriosamente cominicateci dai vasti templi che costellano la nostra (dis)informazione. Primo, perché parlare di qualcuno significa donare un’esistenza mediatica, e sprecare questo dono facendone omaggio ad uno dei nostri politici sarebbe un tentativo simile a quello che J.K. Rowling impone a Barnaba il Babbeo, quello di insegnare la danza classica ai Troll.
Secondo, perché a volte è necessario tornare alle origini, per comprendere il presente.
Perché nessuna critica, neanche la più sottile, può prescindere dalla riflessione. Non possiamo limitarci alla comprensione di ciò che non vogliamo essere, senza una profonda analisi di quello che VOGLIAMO essere. Un’identità negativa non è che un’immagine rovesciata, un tentativo di bilanciare l’equazione, che perde il suo significato una volta raggiunto l’equilibrio. E’, insomma, essere ciò che gli altri non sono, invece di essere ciò che si è. Ma partiamo dall’inizio.

Non potremmo che iniziare col prendere in considerazione due film straordinari: “Un sogno per domani” e “L’Onda”.
Quale legame potrà mai accomunare un film che indaga il nostro ruolo nel mondo con uno in cui emerge potentemente la necessità di rileggere il nostro modo di intendere il rapporto tra i totalitarismi del XX secolo e la modernità?
A mio parere, il bisogno di rivedere la contemporaneità alla luce di una rinnovata flessibilità del Possibile e dell’Impossibile.

“Il regno della possibilità, esiste… dove? In ognuno di voi, qui [indica la testa].”[1]
Con queste parole il Professor Simonet pone la questione del rapporto Possibile/Impossibile e, SOPRATTUTTO, l’incidenza che l’equilibrio tra di essi comporta nell’agire sociale di un individuo.
E’ possibile l’aiuto reciproco tra gli uomini, la cooperazione, cosa può fare un uomo, come formica di formicaio, come goccia in questa modernità liquida, per il mondo? Per i propri simili?
A queste domande risponde Travor, ragazzo di undici anni, proponendo la propria idea: Passare il favore. Aiutare tre persone in qualcosa che non possono fare da sole, a condizione che facciano altrettanto. Una, tre, nove, ventisette persone e così via. Assolutamente utopico. Ma analizziamo un momento in cosa si caratterizza l’utopia del “passare il favore”. Essa risiede nell’improbabilità statistica che un’alta percentuale di individui coinvolti risponda a questa “chiamata”. Nulla di più vero. Come vero, però, è il significato insito nel gesto che comporta questo sistema. Il mondo del possibile, come spiega Simonet, è nella mente, nell’uomo, il resto è scenario, sfondo. Quello che conta è il sentire inteso nel gesto, quello che rende il generale particolare, l’indefinito perfettamente caratterizzato. Il rapporto che si crea tra soccorritore e soccorso, per capirci. E’ possibile soccorrere tutti? No. Ma è possibile lasciare una traccia e una missione. Ne è esempio l’utopica impresa realizzata da Matt Flannery, “Kiva”. Abbattendo il muro di nebbia della filantropia classica, fondata su grandi associazioni autoreferenziali e autocratiche, Kiva è anche chiamata l'”Ebay dei filantropi”: Ci si registra, si scorre la lista degli imprenditori che richiedono un prestito e si inviano 25 dollari. Una volta raggiunta la cifra richiesta, l’imprenditore, in qualunque parte del mondo, potrà comprare le attrezzature necessarie a mettere su un negozio di biciclette, o il bestiame per una fattoria, restituendo presto il debito contratto. Fin qui tutto come al solito.
Ma il creditore non è una banca con gli artigli già posati sul debitore, ma un socio, un coazionista che stavolta entra davvero in contatto con le persone che aiuta, persone dotate di nome, cognome, età, sogni e progetti. Non si aiutano i poveri del mondo, ma si è soci, per un breve periodo, di imprenditori in tutto il mondo, persone per cui 400-500 euro sono la somma necessaria a costruirsi un futuro. Denaro, poi, puntualmente restituito (una percentuale attorno al 98%), e pronto ad essere reinvestito. Filantropia a costo zero, circa un milione e mezzo di dollari investiti a settimana. Per cambiare il mondo.
L’impossibile attuato.

L’altra faccia della medaglia è quella che rivela “L’Onda”: Rainer Wenger, professore di liceo, all’incredulità dei suoi studenti sul fatto che il Nazismo possa ripetersi, propone un esperimento, creare un movimento, l’Onda, con una propria ideologia, un proprio saluto, una propria divisa. Bastano sette giorni per dare vita ad un’atmosfera di violenza e prevaricazione, una cortina degna del 1984 di Orwell. Una trama ispirata, per intenderci, ad un vero esperimento svolto in Germania da Rob Jones, la terza onda, che ha portato a pestaggi e violenze. Nel 1969, circa quarant’anni fa, quando il Nazismo era ufficialmente deceduto da un pezzo.

L’impossibile, in questo caso, appare più come una giustificazione semplificazionista di un passato da esorcizzare, l’annullamento statistico di un improbabile le cui pur misere chanse fanno molta paura. Ma credo ci sia di più.
Ritenere qualcosa impossibile non significa solo rendere altra la propria azione dal male insito in qualcosa che “è impossibile ritorni”; Significa anche eliminare un ricordo storico doloroso dell’uomo di ieri dall’umano dell’oggi, dare al presente una connotazione scevra da un’umanità decaduta che non esiste. Identificare il male non come qualcosa che è non possibile, ma come qualcosa che non è possibile. Non cambia nulla? A mio avviso sì:
Perché dire che qualcosa è non possibile, significa accettarne l’esistenza, ma non la possibilità, mentre definirlo come qualcosa che non è possibile significa allontanarlo non solo da ciò che potrà essere, ma da ciò che è stato.[2] E’, in un certo senso, la risposta di una società schizofrenica che, di fronte agli orrori del proprio passato lo aliena da se stessa, lo rende altro, lo imputa ad un’identità artificialmente costruita perché regga tale peso con la virtù della propria inesistenza.

Parlare di due film come “Un sogno per domani” e “L’Onda”, significa innanzitutto intraprendere un’analisi comparata tra la nostra visione di ciò che è possibile e di ciò che non lo è, muoversi sull’indistinto confine che delimita il nostro orizzonte di azione nel mondo.

Agire nel mondo significa soprattutto esistere come movimento, confondere e mettere in dubbio quel confine, se è vero che la prima prova del proprio errore sia la certezza. Se “Un sogno per domani” ci spiega cos’è possibile, e “L’Onda” cosa non è impossibile, allora forse dovremmo rivedere profondamente le nostre certezze, la stessa dicotomia possibile/impossibile, magari rivista nella più logica probabile/improbabile. Perché dobbiamo difenderci anche da ciò che è improbabile, e riflettere su ciò che è stato. E, soprattutto, dobbiamo credere in ciò che non è mai stato, perché potrebbe essere.

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[1]  Professor Simonet – “Un sogno per domani”

[2]  Comprendo perfettamente quanto questa suddivisione possa essere facilmente smontata dal primo professore di Logica. Sinceramente? Non mi interessa minimamente, l’importante è che sia chiaro il concetto che questa suddivisione esprime.