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L’Era dei totalitarismi ci ha posto di fronte ad una questione con tanta gravità e con immagini così indelebili da rimanere impresse a settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La questione di cui parlo è l’incombere sulla storia dell’uomo di una Gabbia d’acciaio (come da definizione di Max Weber). La vista di un mondo che si contrae su se stesso, chiudendosi sull’individuo ha talmente colpito l’uomo occidentale contemporaneo da lasciarlo senza fiato. Peggio, l’ha incatenato in una tanto frenetica caccia alle streghe, ai colpevoli dell’orrore, da ridurre al silenzio ogni senso di colpa, ogni ricordo, e con essi ogni possibilità di abreazione. Questa strettoia della storia ha avuto la sua esemplificazione nel processo che, nel 1948 ha portato a giudizio a Norimberga gli architetti di quello scempio. Abbiamo creduto così che cadesse il muro della Gabbia d’acciaio, e invece abbiamo edificato, con tanti festeggiamenti, come accade quando si limita la propria libertà, la nostra Gabbia invisibile. Se si osserva attentamente l’andamento della storia contemporanea si possono delineare diversi trend, per quanto riguarda i rapporti di potere e di influenza su di esso. Le gerarchie politiche sono passate per un’Età degli assolutismi, hanno vissuto la cesura della Rivoluzione francese, il dominio napoleonico, la Restaurazione, le grandi lotte sociali, le grandi potenze poi giunte al conflitto nella Prima Guerra mondiale, fino al sorgere e al decadere delle ideologie, per arrivare direttamente ai giorni nostri. Verrebbe da gridare al cambiamento! Discutere per lunghe e noiose ore, complimentandoci sul modo in cui il mondo è cambiato. Tutte queste grandiose amenità potrebbero essere tranquillamente spazzate via allargando la visuale, per accorgerci che esistono ancora oggi dittature feroci e, a dire il vero, ancora più somiglianti al modello orwelliano (Corea del Nord), che abbiamo visto e vediamo ancora conflitti spaventosi, genocidi, grandi pulizie etniche e neanche nell’invisibilità dell’Africa, ma a pochi passi da noi, in ex-Jugoslavia. Basterebbe (forse) a porre fine a tante ciance. Ma la questione è un’altra. A forza di apporre un significante al significato tramite le nostre parole, ci siamo progressivamente abituati a considerare questo pur immenso potere alla stregua di una cura dell’umano contro l’inumano. La funzione creatrice della parola è divenuta un potere fattivo per delineare ciò che vi era di umano nel nostro universo sensoriale. Mi spiego. La parola E’ il significato. E’ questo il potere della letteratura, non esiste alcun significato primitivo, è il sentire umano che dona senso ad un oggetto. Basti pensare alle famose madeleines di Proust. La vista dell’oggetto non ha significato intrinseco, che la parola condensa ed esprime, ma un soggetto fonte della creazione. Tuttavia la creazione di senso non ha che una funzione dichiarativa, rende cioè esperibile ad altri la volontà soggettiva. Il suo potere fattivo è virtualmente nullo, le sue potenzialità invisibili ed inesperibili per un occhio esterno. La discrasia che Gaetano Mosca ha già denotato tra elementi de iure e de facto si pone in una questione di deficit di potere decisionale nell’universo sociale di riferimento. Non posso, quindi dichiaro. Questo è uno dei più gravi punto di criticità della Video-Democrazia. Non più una massa informe di pecore che, come nella Fattoria degli Animali di Orwell, bela all’unisono, ma una folla di individui, ognuno dei quali è convinto di dichiarare il vero. Il deficit di potere decisionale imposto dalla frammentazione del potere pone l’individuo (ma anche la nazione posta nel più ampio scenario delle organizzazioni sovranazionali) nella necessità di gridare all’universo sociale di riferimento (che sia lo stato oppure l’ONU) la propria dichiarazione. Il problema è che, come già sostenuto in Modernità Liquida, l’immaginazione è autocorroborante. Altro che figlia dell’ignoranza (Giambattista Vico)! E decisamente figlia dell’impotenza. Allora abbiamo immaginato e dichiarato molte belle parole, chi gridava di Democrazia da una parte, chi di Uguaglianza dall’altra, trasformando gli “ismi” e rimescolandoli con un neo-individualismo esasperato dal convincente mantra della solidarietà ammazza-sensi-di-colpa. Il neo-positivismo espresso da questa visione del mondo non è poi così dissimile dal provvidenzialismo di cui tanto ci diverte la mentalità medioevale. Anzi, la senescenza delle coscienze che caratterizza il nostro mondo è tanto più grave proprio perché costituisce una reminiscenza dell’uomo medioevale che con tanta arroganza pensavamo di aver portato all’estinzione, come se si trattasse di qualche peloso primate nostro parente alla lontana. Questo sgradevole primate, come il cane di Bulgakov, è ben lungi dall’essere morto. Inutile dire che ve ne sono ancora, di streghe, che ancora ci sono omosessuali da nascondere, non sono più oggetto di scherno, ma guarda caso ancora esiste l’outing. No, la pratica dell’impalamento, le crociate, nulla di questo esiste più, ma ad un aereo mandato a schiantarsi contro una torre, alle migliaia di morti si è risposto con una occupazione militare e con la dichiarazione di guerra ad un organizzazione, autorizzando in tal modo l’attacco praticamente a qualsiasi paese. Alla pratica di attaccare un individuo a due cavalli, e lasciare che corrano, si è sostituita la Procedura Operativa Standard. “Standard” è abbastanza perché il medioevo sia finito. Potenti le parole o imbecilli gli esseri umani? E dove non basta standard sono bastate poche dichiarazioni. Quando alla democrazia, beh, difficile non ridere in faccia ad un individuo che vive in un paese che per vent’anni si è occupato dei bisogni di un sol’uomo (cosa che non era riuscita neanche all’idiota in camicia nera) e parla di Democrazia. La domanda che ora sorgerà spontanea è: “Che ci azzeccano le signore Pamela e Catherine in tutto questo?” Le Pamela e Catherine a cui si fa riferimento sono rispettivamente Pamela, protagonista del “Pamela” di Samuel Richardson, e Catherine Earnshaw del più famoso “Cime Tempestose” di Emily Brontë. Cosa hanno a che vedere con quanto detto? Tutto. Uno delle più grandi allucinazioni di questo secolo riguarda infatti le donne. Il sorgere del fenomeno femminista a difesa delle donne in conflitto con quello, ben più antico e violento, del maschilismo, riflette dalla sua stessa struttura ed evoluzione la visione distorta di una transizione che porta, appunto, dal Modello Pamela al Modello Catherine. Dalla Donna utero e focolare, angelo fintanto che non si ponga in contrasto con il machismo maschile, o addirittura fintanto che non lo assecondi, lasciandosi assistere in tutto come si fa con una bella pianta d’ornamento, alla Donna dal talk-show, alla donna Loreal, il passo non è esattamente confortante. L’idea di un’intelligenza come fattore estetico improntato alla gradevolezza della conversazione non comporta una ridefinizione dell’individuo donna, ma una ricollocazione del genere femminile, come immagine stereotipa e colorata, un po’, guarda caso, come si fa per un bell’oggetto che non s’intoni più con lo sfondo. Si parla di Donne come una pura sommatoria di bei volti, di pronunce perfette, puntati come una canna di fucile in direzione del grande distrattore, l’Amore. A questo punto, ci sarebbe da indagare quale arcana differenza si ponga tra la donna-angelo alla donna-talk. A onor di cronaca, la Catherine Earnshaw di Emily Brontë, per fortuna, si discosta considerevolmente dai personaggi che ogni giorno ci vengono appiccicati sullo schermo, ma a colmare questo vuoto ci ha pensato Stephanie Mayer. L’elemento comune che lega il modello femminile attuale a Catherine è proprio l’esigenza di un modello, dettato dall’ossessione di parlare alle Donne, alle madri, alle figlie ed imporre così una lista di caratteri, una costituzione di appartenenza al genere femminile (interessante il caso della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina redatta da Olympe de Gauge, uno dei primi casi in cui si manifesta questa forma retorica). Si ricerca così un collante, e questo collante non può che essere un fine, una serie di rivendicazioni, un nemico comune. Di nuovo emerge un bene e un male, laddove diviene necessario addormentare i sensi di colpa di un genere umano senescente, con la dichiarazione dei buoni e una caccia ai cattivi. Portiamo sulle spalle una lunga lista di colpe e se non faremo i conti con un passato sempre più pesante, la civiltà e l’imprescrittibilità dei diritti non saranno solo un bel sogno, ma una crudele illusione.

Zygmunt Bauman, sulla scorta di Ulrich Beck, scrive dell’esistenza di due modernità. La principale caratteristica della seconda, di queste modernità, nella visione del sociologo di origine polacca, sarebbe assimilabile al suo stato “liquido”.
Liquidità intesa come mancanza di riferimenti, come moto continuo quanto inerziale, ma anche, se non soprattutto, come un “sistema non-sistema”.
Un sistema il cui unico scopo è la disgregazione, la decostruzione e ricostruzione del sistema stesso, come un’equazione che si riequilibra continuamente, nel tentativo di correggere i propri errori interni. Con la differenza fondamentale, però, che l’equilibrio raggiunto è solo preludio di un nuovo disequilibrio, necessario perché il movimento, e quindi la vita del sistema, acquisti una prospettiva di andamento indefinita.
La società, in questo senso, molto si avvicina alla definizione che ne da Lévi-Strauss, quando la paragona ad uno spettacolo di fuochi d’artificio.
Perché l’agglomerazione spazio-temporale di espressioni sociali capaci di incidere profondamente sull’orizzonte di senso dell’individuo, implica, come contrappasso, un continuo processo di annullamento delle esperienze storico-etiche pregresse.
Si tratta del passaggio dal “tutto scorre” di Eraclito al “tutto brucia” di Jocker, inscindibilmente legato ad una visione caotica dell’esistenza, esattamente come sistema caotico è quello dei fuochi d’artificio.
Il concetto sottostante al “tutto brucia”, inoltre, acquisisce efficacia, qualora ci si soffermasse sullo stato dell’individuo nel modello di coabitazione contemporaneo, il cui sovraccarico di informazioni pone lo stesso in una sorta di condizione di “agitazione termica”. Le particelle di un corpo riscaldato, in effetti, tendono ad una condizione piuttosto singolare, quella di essere in stasi, e contemporaneamente in moto.
Come un corpo in agitazione termica, l’individuo, diviene materia in continua transizione.
Come un corpo in agitazione termica, l’individuo, diviene materia in continua transizione. Esso è, ma vive più esistenze, parallele e fugaci, pronte, nell’attimo in cui ente ed esistenza coincidano, a scomparire nel nulla, irrimediabilmente perse.
L’individuo è posto in condizione di essere alla continua ricerca di un’esistenza da legare al proprio essere. Quale, quindi, la materia attorno alla quale coagulare tale stato di Liquidità?

Tale è il terrore della solitudine insita in una contemporaneità del rischio (per utilizzare il termine di Ulrich Beck) da spingere l’individuo non alla ricerca del proprio essere, ma dell’essere simili. La questione esistenziale, in sostanza, verte non sull’“essere uomini”, quanto sull’“essere come gli uomini”, come un accostarsi di solitudini, e mai come contatto tra unicità.
Il decadimento in uno stato di alterazione, tuttavia, comporta un modello di strutturazione dell’identità all’interno della dimensione dell’Altro, quindi non solo in uno spazio al di là del nostro orizzonte cognitivo ed esperienziale, ma per di più in costante mutamento.
L’enorme complessità della psiche umana (specie se “Altra”) e della società (come agglomerato di altri”) viene in tal modo ridotta a modello cognitivo, quale che sia l’ambito in cui esso si sviluppa (comportamentale, finale o di senso). L’indicazione funzionale che esso riporta nella mente umana, pertanto, è analogo a quello di un software. Un modello cognitivo istruisce il piccolo e isolato mondo dell’hardware su cosa esso debba esattamente fare di sé stesso, come si debba comportare e quali variabili sia necessario prendere in considerazione.
La particolare attenzione oggi tributata ai culti settarici di stampo abusivista, potrebbe essere legato anche a questo aspetto. Il “pacchetto” di pensiero, una volta divenuto merce, e quindi valutato in base al mercato che muove, soddisfa l’esigenza dell’individuo in virtù della propria struttura isolante, e può questo laddove potenzi un meccanismo autocorroborante ed egoreferenziale. E tale effetto partitivo sulla mente dell’individuo è quantificabile nell’efficacia del suo sistema difensivo, fondato sull’aggressività logica degli Slogan che sa lanciare. Come accade negli ambienti settarici, l’isolamento implica un complesso meccanismo dialogico nei rapporti con l’esterno della comunità, limitando gli scambi di informazioni a dati pre-formattati la cui funzione non è tanto convincere, quanto destrutturare l’intruso nella propria capacità di interagire. L’ambiente cognitivo posto ad hoc isola e quindi focalizza il pensiero su una catena preimpostata di dati non contraddittori, ponendolo in uno stato di sospensione dal dinamismo complesso del tempo, imponendo la forma triadica dell’Io, del Qui e dell’Adesso.
L’individuo è disconnesso (mutuando il termine da Scientology) dalle proprie coordinate spaziotemporali, riportato all’immagine statica dell’eterno ordine di un limite artificiale posto ad hoc. E’ questa l’analogia di fondo che lega l’atteggiamento gnoseologico settarico a quello dell’età contemporanea.

Alla riduzione dell’essere sull’altro generalizzato, tuttavia, non segue solo l’analogia messa in evidenza. Il problema più profondo deriva dal principale effetto di questo fenomeno, per alcuni aspetti già evidenziato da Galimberti, ossia la mercificazione del pensiero.
Come detto, in una compartimentazione delle idee complesse, l’importanza delle stesse non collima con il valore intrinseco (utilizzando un termine economico, “il valore d’uso”), ma il valore di mercato (o valore di scambio), determinato dalla domanda che questo sa attrarre. L’idea trova il proprio sostegno nel numero dei suoi seguaci, sostanzialmente in quanto forte vengono gridati i suoi slogan.
Mercificare, però, significa anche creare un legame tra prodotto e proprietario, un’interesse a che questo bene proliferi, e, soprattutto, un forte antagonismo tra interessi contrapposti. L’altro non è più una fusione di bene e male, ma un “non-noi”, l’assoluta nemesi ideologica che trova uno spazio nel mercato in quanto, e solo in quanto negativo di tutto ciò che contraddistingue l’Io.
Il dialogo, insomma, si rivela tentativo di congelare l’instabile liquido della modernità. Ma in tale tentativo, l’essere naufraga impietosamente, dove a prodotto di tale scellerata svendita di identità si ergono iceberg come pietose zattere di ghiaccio che cozzano tra loro. Finito di navigare e vista affondare la propria nave, l’individuo si ritrova su tale instabile conformazione, perso nel maniacale sforzo di mantenerne la solidità strutturale, difendendone l’integrità artificialmente costituita, pur di non affogare. Questa categorizzazione etica della fenomenologia dell’essere nel mondo, infine, lungi dal porre un freno al tempo, si rende prigione per l’agire spontaneo degli individui, compartimentando ciò che, di fatto, non lo è assolutamente: l’Umanità.

E’ caratteristica di una mentalità schizofrenica il tentativo di frammentare l’Io, facendone dialettica tra due corpi estranei, l’uno di luce, l’altro di tenebre.
Se ciò può ritenersi deleterio nella mente di un individuo, può raggiungere dimensioni perlomeno catastrofiche in una società.
L’utilizzo funzionale di un settore dell’Identità sociale allo scopo di farne un catalizzatore antagonista, si risolve in un vero e proprio atto di esorcismo.
Consumato il rituale, il dispiegarsi dello spirito nella corsa dell’umanità verso la propria evoluzione ultima, verso la purificazione dal male, torna a tacere il ricordo rimosso, la spiacevole coincidenza di eventi sfortunati, la serie di equivoci, chiusa nella cripta del tempio, come una metastasi chiusa nella dimensione di un passato barbarico e lontanissimo.
Dall’altra parte dello steccato (la maggior parte delle volte, tra l’altro, ingiustamente), stanno i cattivi della fiaba, gli antagonisti del progresso, i rei confessi della storia, quei facinorosi da “identificare ed espellere” come uno stadio del razzo ormai inutile e senza scopo.
Una società schizofrenica, però, è una società malata, che relega negli angoli della memoria e della cognitività fatti spiacevoli ed eventi razionalmente inspiegabili. Non di rado (e l’Europa di oggi né sembra essere un inquietante presagio), il costo del lato oscuro dell’identità sociale è stato pagato da colpevoli assolutizzati (indifferentemente dal fatto che lo fossero o meno), estinguendo il fuoco, ma lasciando una cenere che, naturalmente, non ha bisogno che di un po’ di vento per tornare a bruciare.